skip to main |
skip to sidebar
Racconto
Dicembre 2005. Ponte dell’Immacolata. Caraibi.
Traversata: da Guadalupa a Dominica e ritorno, sei giorni di navigazione. I chilometri non li ricordo.
Barca: GS43, 13 metri, un albero, non chiedetemi altri dettagli perché non ne so. Era una bella barca. E c'era pure un bel mare anzi, qualcuno diceva di non averlo mai visto cosi alto e impetuoso.
Skipper: tre, João, l’Ammiraglio (altrimenti detto l’Anzianissimo) e Piero. Soprannominati i Tre Tenori.
Membri d’equipaggio: sei, Vito, Mauro, Cristina, Federica, Tania e Laura (cioè io).
A parte Tania, che ci ha raggiunti da Roma, noi dell’equipaggio vivevamo tutti a Milano; ci eravamo conosciuti l’estate precedente a un corso di cabinato sul Lago di Como.
Una scuoletta di vela ruspante, stile vecchia guardia, dove "tutti cazzano e nessuno se la tira", per citare il motto impresso sulla carta intestata e stampato sulle t-shirt gialline regalateci durante la serata conclusiva. Non un posto per fighetti, insomma. Se non ricordo male, nessuno di noi s’era mai cimentato prima d’allora in un’impresa marinaresca così temeraria ed esotica.
Guadalupa con la sua forma a papillon ci aveva subito stregati, e riacchiappare l’estatein pieno inverno è l’ossessione ricorrente, il sogno proibito del milanese medio. Da parte mia, avevo trascorso le umide serate d’autunno metropolitano sfogliando la Lonely Planet, rileggendo Il vecchio e il mare, Isole nella corrente e altri racconti tropicali di autori poco noti. Certe sere, mentre sorseggiavo un bicchierino di rum acquistato alla Coop, ascoltavo musica caraibica e m’immaginavo il carnevale di Guadalupa; giocavo a fare gasse d’amante con la cordicella dei panni. Pian piano, partivo da Milano già mesi prima.
Sapevo cosa volevo da questo viaggio: la carezza degli alisei, li amavo già solo per il nome, i tramonti infiniti sull’oceano, un nuovo mondo da portarmi dentro quando sarei rientrata in ufficio, sotto il fuoco incrociato di avvocati iracondi, computer asettici, telefoni aggressivi e fax imperiosi. Lavoravo, infatti, in uno studio legale internazionale. Volevo godermi i Caraibi e la buona compagnia. Facile.
In barca, avevo scelto il mio ruolo ancor prima di salire a bordo, senza aspettare le
direttive di João: sarei stata il mozzo. Il mozzo è un personaggio stupendo, nonostante la letteratura marinara gli remi contro e lo releghi sempre nell’ombra; faceva proprio al caso mio: il mozzo è utilissimo nelle attività pratiche low profile (pulire, riordinare il casino etcetc.), mi sembrava un tipo autonomo e placido. E’ il beniamino di ogni ciurma vacanziera, perché svolge mansioni che nessun’altro si vuole accollare. Inoltre, essendo l’ultimo gradino della scala gerarchica, è felicemente estraneo alle lotte darwiniane, modello “esemplare
dominante”, che spesso scoppiano durante amene crociere, investendole in pieno con la
furia di un tornado, seminando a bordo incendiarie discordie. Insomma, fare il mozzo è una figata. Sono di natura pacifica, contemplativa e poco belligerante, amo lavorare in gruppo perché mi piace la gente e ho un rapporto affettuoso col mondo, e tuttavia rifuggo con orrore le tensioni superflue che, puntuali, serpeggiano in ambienti piccoli, microscopici come una barca in mare aperto. Mi sembrano un grottesco spreco di vita. Ancora non lo sapevo,ma più ti inoltri nell’oceano infinito, più finito diventa il tuo spazio in barca; è come se lo
spazio attorno a te si dilati, elefantiaco, schiacciandoti nel buco nero della tua bagnarola,insieme ai tuoi compagni, alle tue cose, alle tue azioni.
Con i miei compagni ci siamo subito voluti bene, come di rado succede. Ognuno a suo
modo, certo, ma che ci volevamo bene dentro il guscio della barca ed eravamo una famiglia improvvisata solo per pochi giorni l’hanno sentito tutti. Stai gomito a gomito a mangiare e bere; vestirti e svestirti; pisciare e cagare; e soprattutto a occuparti della barca, attività questa che assomiglia un po’ ai lavori domestici, solo che gli utensili e gli ambienti sono strani, i movimenti e le dinamiche inusuali. Ti occupi, insomma, di una casa che però non è una casa ma una barca che naviga. E allora devi cazzare, lascare, annodare, attraccare, mollare gli ormeggi. Il tuo spazio d’azione è minuscolo, quello attorno a te, sotto e sopra di
te, è invece infinito. Succede allora che, superati i primi imbarazzi e il primo senso di estraniamento, nel microcosmo tutto diventa un gioco e tutti vogliono giocare.
Nel nuovo gioco, come dicevo, mi sono decisa per il ruolo di cenerentola-lavapiatti, fin dal primo giorno, un po’ per essere collaborativa, ma soprattutto per interesse. Sì, proprio per interesse. Dopo pranzo, smaniavo di trovarmi a poppa finalmente tutta sola, in costume, il mio secchio azzurro ricolmo di stoviglie, la spugnetta gialla, il detersivo e il mio pacchetto di Camel. E intorno a me il lavello infinito del mar dei Caraibi, blu intenso, il luccichio del sole, gli alisei nei capelli.
“Qui potrei lavare i piatti tutta la vita!” ho esclamato senza accorgermi, a voce alta. E’ stato allora che la testa di Tania ha fatto capolino a poppa, ansiosa, perché le dispiaceva che in piena siesta qualcuno facesse il lavoro sporco. Tania è bella e dolce, ha un sorriso appena accennato, eppure ti accorgi che sorridono anche i suoi occhi chiari.“Tutto bene?” mi ha chiesto.
“Sì, sì, come no!” l’ho rassicurata, e poi ho aggiunto che mi sentivo una specie di sirena casalinga; ciocche di capelli arruffate nel vento, schiuma di detersivo sulle cosce e gli avambracci. Tuffavo le padelle in mare come una bambina quando gioca sulla spiaggia. Una Nereide del terzo millennio, insomma. Il sole scottava sulla pelle dorata. Abbiamo cominciato a chiacchierare. Amo parlare alle persone che amano ascoltare; se possibile,parlo di libri. E mentre le raccontavo di Stevenson, Melville ed Hemingway, Tania ha preso uno strofinaccio e ha cominciato ad asciugare i piatti già sciacquati. All’inizio, pensavo lo facesse per cortesia, poi ho capito che anche lei aveva capito. Lavare i piatti sulla barca non era lavare i piatti, ma significava entrare in un mondo di suggestioni, intimità e naturalezza che, nella sua semplicità, fa bene al cuore. Io e Tania quel giorno, lavando e asciugando i piatti, ci siamo raccontate un sacco di cose di noi, con e senza le parole. Ci siamo incontrate in quest’attività muliebre, arcaica, eppure sollevata dall’oppressione quotidiana proprio perché eravamo in una barca in mezzo al mare. Si sentiva che quei piatti sporchi ci avevano unite. E l’hanno sentito anche gli altri.
Si era creata una sinergia speciale tra me e Tania. Eravamo presenti l’una per l’altra. Senza che niente fosse accaduto. In apparenza.
Il giorno dopo, a lavare i piatti con lo sguardo che si perdeva in una baia selvaggia della Dominica, casualmente c’erano anche Federica e Cristina, nonostante avessero cucinato loro, e avrebbero dunque potuto pisolare sottocoperta senza remore. Invece, Cristina rollava le sigarette per tutte, io insaponavo, Fede sciacquava e Tania asciugava. Stavamo bene, in quell’armonia avremmo potuto lavare i piatti di un intero banchetto di nozze senza accorgercene. Le stoviglie unte si erano trasformate in una scusa per stare insieme, raccontarci confidenze femminili, passare piatti e bicchieri sfiorandoci le mani, e a volte il corpo.
Il terzo giorno, dopo pranzo, Mauro ha fatto irruzione nel gineceo di poppa. La sua
criniera riccioluta al vento, una specie di Medusa coi baffi all’Emiliano Zapata, e la macchina fotografica. “Reportage di attività donnesche su naviglio!” ha tuonato, e non finiva più di scattare foto e complimentarsi di come eravamo belle a lavare i piatti mezze nude. Credo che l’intuizione di Mauro abbia risvegliato emozioni maschili sopite nel resto della ciurma, perché L’Ammiraglio, che oziava al sole, si è tolto i suoi occhialini verdi da solarium, ha inforcato gli occhiali da vista ed è comparso a sovrintendere i lavori, mani sui fianchi, sguardo vigile e compiaciuto.
A cena, quella sera, c’eravamo tutti e nove a lavare i piatti, equipaggio al completo.
Il sole tramontava.
La rigovernatura si era trasformata come per incanto da onere inviso a rituale
collettivo, promiscuo e divertente. Con i piatti ce la siamo sbrigata subito, è invece durata a lungo la fase successiva, quella delle secchiate d’acqua. Se non ricordo male, è stato João a cominciare. Ha afferrato il secchio azzurro come per appenderlo, affettando una certa nonchalance. Si è girato di spalle. Ho fatto in tempo a cogliere un sorrisetto satanico e un occhio da teppista che sta per centrare una vetrata a pallonate. Infatti, velocissimo ha riempito il secchio in mare e mi ha fatto la doccia. Urla di sorpresa. La seconda vittima è stata l’Ammiraglio, che stava disquisendo insieme a Mauro sull’esattezza di certe misurazioni col sestante. Mauro e l’Ammiraglio, allora, vendicativi e inzuppati, si sono scagliati su João;
nel corso della colluttazione, sono volati in mare tutti e tre, vestiti. Secchio azzurro incluso. E’ partita allora l’escalation. Imprevedibile.Inarrestabile. Vito, l’uomo-ancora pacato e silenzioso, con un guizzo repentino ha acchiappato Fede e l’ha buttata in acqua, senza tanti complimenti. L’educatissimo Piero, a tradimento, ha spinto Cristina fuori bordo. João e Mauro issatisi a poppa, gocciolanti, hanno afferrato me e Tania e splash, anche noi a mare. Impugnavo ancora la pentola della frittura di pesce e la brandivo a mo’ di scudo per difendermi dagli schizzi. Alla fine, si sono tuffati tutti a rotta di collo. Una ciurma urlante, adolescenziale e acquatica. E’ così cominciata una lotta anfibia fatta di adescamenti, assalti, placcaggi, grida d’aiuto e di battaglia. Il mare ribolliva di spruzzi, come quando i pescatori tirano su le reti colme di tonni.
Basta così poco per essere felici.